venerdì 29 agosto 2008

Assenza di dimensione temporale. Il caso della Macondo padana.


Esistono luoghi come quello ove è sita la dimora genitoriale, e di conseguenza anche il mio piccolo eremo di cemento armato in essa contenuto, ove il tempo è assente, assente il moto. Ove l'abbandono all'abitudine è un cieca inconsapevolezza. Un luogo dove le monete da uno e da due centesimi non le accettano da nessuna parte, se non riposte in pratici contenitori di plastica trasparente. Un luogo dove per acquistare delle sigarette ci puoi mettere anche trenta minuti. Un luogo dove le donne della menopausa hanno un tavolo fisso in ogni bar e parlano che c’è crisi, da dieci anni come minimo. Un luogo dove il tempo si è fermato agli anni ottanta e tutti conoscono Enolagay, anche mia madre. Un luogo dove la gente scassa le cassette dell’elemosina in chiesa e va a cambiare i soldi in posta. Un luogo dove i vecchi vanno al bar e se non hanno i soldi per l’ombra de vin li possono portare un’altra volta, che tanto tutti si conoscono. Un luogo dove si inizia ad assumere alcol e droghe alla scuola media e poi non si smette più. Piccola Macondo padana, sterilizzata e asettica, morale e segatura in ogni angolo. Piccolo villaggio sul fiume che si chiama Fiume, con il mulino e la Mesons a distanza di dieci metri. Capannoni industriali che troneggiano sulle piane di asfalto e spartitraffico erbosi incolti. Immigrati e giri di prostituzione. Campi e trattori. Rurbanizzazione. Cancelli come trincee incolori, case per anziani bianche e statiche, fissità unidimensionale. Chiese vuote, strade vuote, Un tamarro con l’autoradio a palla, uno ogni tanto. Piccolo universo di insoddisfazione latente.

mercoledì 13 agosto 2008

Una vita nell'imballaggio. Frammenti di un'autobiografia.

Volume IX: Gli anni del polistirene.

Il tempo del ritiro spirituale all’interno del proprio cranio è tornato ed è incrementato dalla presenza fisica della filosofia medievale sul paterno tavolino della camera venetica. Libri a forma di cubi da discoteca mi osservano da quella superficie, colonne sonore dal sapore di gelatina dimessa e fluorescente imperversano dal fondo del portatile, privato di casse che possano diffondere suoni non metallici.

Medito e ascolto, come una giovane natura razionale che aleggia sulle cose e le penetra analiticamente per poi sintetizzarle [in genere con scarso risultato]. Passeggiando e vagando per le sabbie desolate della costa adriatica, sfidando pallonate, bambini urlanti e mediocri virilità abbronzate, cercai inconsapevolmente la realtà delle cose nella forma delle conchiglie e nel rumore delle onde. Trovai solo un uomo tailandese pronto a vendermi tatuaggi di scarso pregio e tale significativo evento mi turbò tanto da impedirmi di continuare a leggere Memorie del sottosuolo in spiaggia. Mi ubriacai quindi con raggi solari e crema dalla protezione tendente all’infinito più uno, di seguito collassai sotto le pale rotanti dell’appartamento marittimo.

Pale rotanti in ogni stanza, pale rotanti dappertutto. A causa di tale incessante moto circolare dotato di ronzio ipocondriaco, le ossa del mio corpo iniziarono a scricchiolare con veemenza, attirando quell’incostante attenzione che dedico alle contingenze corporee. Pensai macrobianamente alla tomba dell’anima, poi mi convinsi che tutto fosse imputabile al fatto che l’attività più faticosa che avevo fatto negli ultimi sei mesi era alzarmi dalla tazza del cesso. Mi automaledii e, al fine di sedare una coscienza spesso inesistente, mi ripromisi di iniziare a breve un corso di bocce, o perlomeno di installare dei pedali alla parete del soggiorno. Fu questione di qualche ora, quando decisi infine che la colpa era da affidare all’uomo tailandese che mi aveva condotto alla perdizione dell’ozio solare distraendomi dalla saggezza russa. L’integrità del mio spirito era salva e pertanto mi permisi di svolgere degli autodefiniti e di tediarmi sopra volgari attività quali la depilazione.

Quando tornai alle naoniane piane asfaltate come chi aveva appena letto un intero manuale di mille pagine sul pensiero filosofico tra III e XIV secolo, evitai di intrattenere relazioni umane e mi rifiutai di dare una discendenza ai miei genitori assumendo come motivazione “la vita è sofferenza”. Mia nonna mi diede ragione ed io non potei che allontanarmi volteggiando nel giardino tra ulivi ed escrementi di cane.


Attendo, ascolto e medito. Avvolto in un tetrapak al condizionale, assumo distintamente coscienza di tale involucro consustanziale.

martedì 27 maggio 2008

Cartacei a distanza

Carissima.
Rispondo con immondo ritardo alla vostra missiva cartacea principalmente perché la lingua tedesca e la pordenonesità delle vicende mi alienò dal resto del mondo. In realtà una motivazione imperante è anche la mia disabitudine nel redigere documenti scritti ed ora, infatti, provo dell’imbarazzo ad utilizzare biro sbavanti e fogli scrausi per strutturare pensieri fisicamente vicini.


Oramai la cognizione scrittoria dell’uomo contemporaneo è quella della tastiera e ciò è sicuramente di grande tristezza. Sto già postulando che l’uomo cibernetico del futuro disimparerà a scrivere con le penne e si limiterà a picchiettare piccoli tasti dotati di caratteri in rilievo, tanto che nel giro di cinque generazioni non vi sarà più motivo di avere un pollice opponibile e le unghie smetteranno di crescere.
Di recente subisco il fascino del giardinaggio in modo autoindotto. Infatti, cerco di raggiungere gradualmente le capacità di interessarmi nuovamente al prossimo e dispensare nuovamente amore partendo dalle forme di vita più semplici al fine di passare in seguito a quelle più complesse ed irritanti, quali gli animali e l’uomo. In tal modo sono già riuscito a determinare la morte di una pianta grassa, lasciandola semplicemente annegare sotto gli scroscianti temporali venetici, e allo stesso tempo a provocare al rosmarino notevoli problemi di secchezza. Ignoro come ciò sia possibile, essendomi limitato a lasciarli entrambi sul balcone della cucina.
Le relazioni umane languiscono, tranne per i rari casi di persone che cercano di starmi vicino [e ci riescono] e per la famiglia De Peecox Paper. Il problema principale rimane la stupidità che rilevo aleggiare nel cerebro altrui e che è quantomai amplificata dalle vicende che mi accaddero e che continuano a riemergere in ogni momento dalle piaghe mentali. Alla disperazione alterno momenti di cinismo o di irosità inauditi, distruggendo i rari momenti di gioia non alcolica con considerazioni fuori luogo. Spesso sogno di infilare trivelle cosmiche tra gli incisivi altrui mentre nella realtà mi limito a parlare con il televisore. Per allontanarmi dagli eventi e dalle porte del congelamento emozionale cerco allora di studiare in modo meccanico e compulsivo o di giocare pomeriggi interi con Photoshop, le quali cose mi donano serenità e allo stesso tempo mi rendono insoddisfatto come poc’altro. Penso all’Erasmus, ma allo stesso tempo non penso a nulla [e a tutto]. Pare che esso sia un mezzo di socializzazione itinerante e di grande gaudio e di esperienze da raccontare ai pronipoti, ma forse è che io conosco persone troppo felici e bendisposte verso il mondo. Non temere, comunque, giacchè qualsiasi cosa avverrà sarà tale perché dovrà avvenire [di recente divenni fatalista] e talvolta gli esigui legami sono un bene, perché possono rimanere esigui anche a distanza, mentre quelli di maggior portata tendono a divenire esigui e ciò è peggio perché vi è delusione. Scoprii in contesto cimiteriale il legame con gli sconosciuti ed esso fu così breve e così lancinante che mi fece pensare ad una speranza, così come me lo fa pensare la famiglia De Peecox Paper [a meno che essa non sia una magra consolazione dettata dal contingente].
Mi porta gioia il pensare al futuro pellegrinaggio fiumano e spero a breve di poter studiare delle mappe cartacee e di attingere a informazioni varie e viarie.
Con tormentosa pace,

sabato 19 aprile 2008

Il formaggio e i vermi

Il processo di espulsione di un principio trascendente dalla mia esistenza ebbe origine durante la frequenza del catechismo il mercoledì pomeriggio. Dopo gli anni in cui colorai figurini di Gesù e dei dodici discepoli, un tizio mi urlò contro che mia madre si chiamava Maria e che non vi erano prove che gli uomini derivassero dalle scimmie. Ricordo poi tutti i bambini del mercoledì pomeriggio urlare bisillabi quali “uga – uga” e i catechisti che in qualche modo si stavano ricredendo. Qualcuno disse addirittura al prete che il catechismo non lo voleva più fare.
Nella mia tenera giovinezza mi comportai in modo blasfemo, tanto che in seguito fui preso da una sì grande noia per i monoteismi che mi disinteressai completamente alle forme di religiosità. Preferii dedicarmi alle lettere e alle soap opera. Donai così la mia anima alla forma poiché intorno si parlava solo di essenze e si pretendeva di avere verità in formato tascabile “viverbene”, peraltro facilmente disperdibili nell’ambiente. Troppa gente propugnava fideismo mascherato con foglie di fico. Il cristianesimo è fede, l’ateismo è fede, incominciare una raccolta di figurine Panini è fede, il vegetarianismo è fede, la razionalità è fede, credere che Maria de Filippi venga investita da un autocarro adibito al trasporto di clementine è fede, la scienza è fede. Accettare un fideismo è una soluzione efficace per proseguire la propria esistenza tranquilli, se si è coscienti di possederne uno. Se poi muore, se ne può sempre trovare un altro telefonando ad un numero verde.


L’essenzialità e la geometria delle cose, l’inconsistenza delle strutture logiche e la conseguente umiltà della disconoscenza umana si mostrarono quindi come intuizioni. A che pro il cogito sull’atto creativo se concetti quali origine del mondo, eternità e infinito sono gradualmente assimilati a paradisi artificiali procreati da insulse tracotanze umane, arricchite peraltro da un sillogizzare egocentrico? La teologia altro non è, allora, che la raffinata farneticazione su domande imposte dalla struttura logica sovrapposta dall’uomo all’universo, ma altrimenti prive di significato alcuno. Un grande paracularsi sillogistico, allora, al fine di mantenere un paradigma razionale e affermare la logica quale massima espressione della mente umana.
Fuffa, insomma.

Quale delusione, o Uomo. E quale piccolezza.

venerdì 4 aprile 2008

Titolo assente


Mi fu riferito di come fosse veramente possibile per una persona essere il centro di tutto quanto ci concerneva. E quanto mi fu riferito era vero, ragazzo.

Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale ed ora che non ci sei più è il vuoto ad ogni gradino.
Leggere gli Xenia adesso è come rileggermi. Ed io ti avevo più volte promesso che Montale lo avremo sfogliato insieme, dacché ignoravi tanto di me e questo poteva passare per un brandello della mia anima. Per prima cosa ho preferito però insegnarti ad abbassare la tavoletta del water una volta finito di mingere.

Quand’è perduto il tempo perduto? Con ogni probabilità in nessun caso.

I raggi primaverili si dipanano ora quali fredde imposizioni di rinascite inesistenti, l’equilibrio e la necessità degli eventi sono disposti in fila sul perimetro della terra, mostrandosi apertamente e comprensibilmente, aspettando un assenso o una scabra accettazione.

La tua parola così stenta e imprudente
Resta la sola di cui mi appago.
Ma è mutato l’accento, altro il colore.
Mi abituerò a sentirti o a decifrarti
Nel ticchettio della telescrivente,
nel volubile fumo dei miei sigari
di Brissago.

Passeggiando, lo so, con il tempo ridarò valore agli oggetti e alle cose e li richiamerò per nome [ma quanta fatica è sistemare il diagramma di flusso dell’esistenza in modo coerente ed efficace se ora tutto mi disinteressa come la musica indie e le gare motociclistiche!].
Che vita di stenti e di privazioni.

sabato 23 febbraio 2008

Dinamismo e attesa. De consolatione philosophiae è una domanda.

L’ossessione verso il possesso dello scibile mi opprime. Ostinandomi a ritenere inedia quell’incapacità fisica e mentale di convergere ogni energia nella direzione del fu e dell’è, procreo ampolle di frustrazione neanche troppo latente destinate a roteare in modo inesorabile ed a fiondarmisi dritte sulle palle [dimenticavo di dire che esse sono dotate di altresì dolorose lame infuocate ed a seghetto, sconsigliate ad ogni telespettatore dell’Albero Azzurro dacché tale trasmissione fece capolino in televisione].
La totalità dell’essere è un campo di indagine incattivito. Il proliferare di determinazioni settoriali incide sulla capacità di visionare con lucidità e fierezza il Tutto, appiattisce il globale e frantuma ogni coerenza. È così che dal particolare non si giunge al generale, tant’è che si funziona per paradigmi a chiave unica calati in una variabile temporale [non di certo lineare, chiaramente].
Dove sia il mezzo per perseguire la struttura del vigente è affare doloroso, ritenere che essa si svelerà teofanicamente in età pensionabile lo è ancora di più. Le capacità mnemoniche, nel frattempo, ridono di sé stesse anche a vent’anni e cerebri precari nel tempo che fugge convogliano colpi di grazia all’apparato motorio, generando fusioni tra Giacomo Leopardi, Pippo e un reggimento di suore dedite alla produzione di sidro.
Esistere nel districare brandelli di esistenza, che riemergono di tanto in tanto nel caligo della memoria infantile, e nell’aspettare quel misero e mistico istante pellegrino in cui si mostri un eterno ritorno. Id est.
E la circolarità continua ad emettere segnali sdegnosamente e fascinosamente incomprensibili, la Natura è ancora quel tempio con gli alberi e i simboli di cui si racconta.

Ed ecco la frenesia del contingente distruggere legami e produrre iperstimolazioni Tesmed di superficie.
Se distrazione o contributo è ancora da capire.

venerdì 8 febbraio 2008

La collina dei ciliegi

a P.


Il distacco avvenuto ci è caro, infine. Il dinamismo e la mobilità del corpo fagocitano il pensiero frapponendovi un vetro smerigliato [non lasciarlo fare senza cognizione]. Ed io, che credo ancora nell’ascetismo come rinascita cerebrale e che mi isolo per meglio comprendere, non ti ho forse mai capito. Di te, per cui si usano solo i diminutivi e che nelle foto sorridi spezzando delle gallette per celiaci, non mi rimangono ora che domande. La spontaneità è talvolta confusione e di per me non possiedo gli strumenti per comprenderla. Onestamente non ho mai capito come potessimo avere dei gusti così simili né perchè ci trovassimo bene insieme. È probabile fosse merito tuo, comunque, dacché io non faccio molto per avvicinarmi agli ego altrui, sempre così soffocati da innumerevoli problemi e contingenze [l’ironia e il cinismo sono un modo di essere più che una bolla di facciata].

Ci incontrammo in circostanze casuali, probabilmente a casa tua, in quel felice connubio di vino e prosperità spirituale. Eravamo legati da coincidenze, come tutti.
La prima volta che mi parlasti davvero, mi giudicasti quanto mai sincero con i miei sentimenti, ma già che un po’ di tempo è passato forse hai capito che così non era. Ti pensai sciocco a non comprendere la stratigrafia delle maschere. Tuttavia, ci ritrovammo da principio simili nel pensiero, mai nella [re]azione. La tua compagnia mi divenne cara giacché non eri un opposto, ma così sembrava.
In tal modo un’essenza può avere diverse forme.
Ed ora, che rimani così sfuggente anche per te stesso e che cerchi definizione per cose che non ne hanno alcuna, vaghi per strade che non sono più buie calli mnemoniche, con quell’entusiasmo che diventa rinnovata documentazione essenziale.

È ormai tempo per noi di disegnare un nuovo pensiero?